Tom Sachs esplora tramite l’arte il mondo del consumismo, definendosi al tempo stesso sua vittima e suo beneficiario. 
Un nuovo Andy Wharol che svela il lato provocatorio della cultura pop e del mercato globale. Sostituisce Gesù e la Madonna con Hello Kitty, accosta McDonald’s a Prada e realizza una ghigliottina firmata Chanel. 

C’è chi lo conosce per la sua collaborazione con Nike, cominciata nel 2012 con il lancio del progetto NikeCraft e il modello di scarpe Mars Yard, chi per la recente inchiesta del giornale statunitense Curbed riguardo ai presunti abusi commessi nel suo studio di NY, o chi ancora per la sua serie Space Program che simula missioni spaziali (incluse esplorazioni su Marte e sulla Luna).
Tutti almeno una volta nella vita hanno sentito parlare di Tom Sachs, nel bene o nel male. L’artista newyorkese nato negli anni 60, infatti, è uno dei protagonisti più discussi della scena dell’arte contemporanea per le sue opere spesso ironiche, provocatorie e critiche verso la società e i suoi simboli culturali. Molte delle sue creazioni sono emotivamente cariche e sfidano gli spettatori a riflettere sul consumismo contemporaneo e sulla complessità dell’esperienza umana all’interno di un mondo sempre più dominato da nuovi marchi e tecnologie. In questo contesto, Sachs porta avanti un interessante lavoro di riflessione sulla società contemporanea; le sue sculture – perché di sculture prevalentemente si tratterà in questo articolo – diventano delle metafore di quanto possano essere manipolativi il branding e il marketing aziendale e dei significati che questi fattori assumono nelle nostre vite, sempre più plasmate sull’identità dei prodotti che consumiamo piuttosto che sui nostri reali bisogni. Le opere sono realizzate secondo la filosofia sachsiana del do-it-yourself  e del bricolage: sono tutte meticolosamente fatte a mano e in esse viene messo in mostra il processo laborioso della loro creazione. Distogliendo dall’idea di perfezione spesso richiesta dalla nostra società, mostrano infatti ogni fase della produzione: nulla viene nascosto o mascherato.

Hello Kitty: l’icona commerciale diventa uno strumento di critica

Una delle sue primissime opere risale al 1994 e già prefigura lo spirito della produzione artistica di Tom. Si tratta di Hello Kitty Nativity, una reinterpretazione provocatoria della tradizionale scena natalizia. Gesù e la Madonna diventano Hello Kitty, i tre magi si trasformano in Bart Simpson e la stella cometa nella “M” di McDonalds. Maria, inoltre, pare essere rappresentata come la versione felina della pop-star Madonna e sembra indossare un reggiseno nero di Chanel. Questa scultura apparve per la prima volta in una vetrina di Barney’s, un grande magazzino di New York, e suscitò polemiche significative, portando all’intervento della Catholic League per la Religione e i Diritti Civili che accusò l’opera di blasfemia. La scultura riprende molti simboli dei media e del marketing, mettendoli in relazione con riti sacri e cultura tradizionale, svuotando quest’ultima di significato e presentando anch’essa come mero oggetto di consumo. Non sarà l’ultima volta in cui Tom Sachs si avvarrà dell’iconica gattina per veicolare le sue riflessioni sulla società. Infatti nel 2008, in occasione della mostra Bronze Collection a Parigi, ha presentato tre grandi statue in bronzo raffiguranti rispettivamente Hello Kitty, My Melody (lanciate entrambe dalla compagnia giapponese Sanrio nel 1974) e Miffy (un piccolo coniglio progettato dall’olandese Dick Bruna nel 1955). Tutti e tre i personaggi sono massivamente commercializzati come prodotti di merchandising, sono giocattoli ingenui e allegri che allo stesso tempo possono essere utilizzati per mettere in discussione un mondo radicalmente influenzato dalle dinamiche di vendita. E in particolare Hello Kitty, più volte definita da Sachs come una “merchandising icon”, qui rappresentata con i suoi 3 metri di altezza, pare essere eternata come accadeva per gli imperatori romani attraverso i monumenti statuari.

I marchi di lusso e il loro inedito potere dissacrante

Sachs è noto anche per la sua capacità di reinterpretare con un pizzico di ironia gli oggetti della cultura di massa americana mescolandoli con le griffe più lussuose. Ha infatti dialogato con molti brand dell’alta moda come Prada, Chanel, Hermès e Tiffany & Co. In questo senso, una delle sperimentazioni più interessanti è senza dubbio Hermès Value Meal Big Mac (1995), seguita da Tiffany Value Meal e Prada Value Meal (2006). Si tratta di riproduzioni dei tipici prodotti del famosissimo fast food americano McDonald’s, reinventati tramite l’utilizzo dei grandi marchi di lusso. In questo modo si crea un interessante gioco di contrasti: vengono applicate le etichette dell’alta moda, tradizionalmente esclusiva ed elitaria, all’oggetto di consumo popolare per eccellenza, e cioè il fast food. Queste tre opere suscitano senza dubbio moltissime riflessioni relative alla fusione tra consumismo di massa e lusso. Fanno pensare a quanto facilmente un oggetto comune possa essere trasformato in un simbolo di status elevato e, viceversa, all’altrettanta facilità con cui gli emblemi del potere economico possano essere svuotati di significato e banalizzati tramite il loro uso nel commercio di massa. In tal senso Sachs ha sperimentato ulteriori accostamenti particolari e provocatori: è il caso del Prada Toilet (1997). Anche quest’opera consiste in un oggetto non glamour, un gabinetto, a cui viene applicato un branding di alta moda. Tale contrapposizione crea un effetto destabilizzante per il pubblico e invita a riflettere sullo status delle grandi firme in una società sempre più consumistica e influenzata dal branding.

I rischi delle subdole logiche della nostra società consumistica contemporanea, però, sembrano essere meglio analizzati in altre opere di Tom Sachs, in cui l’autore accosta l’elemento della violenza e della morte alle etichette delle case di alta moda, in una miscela di provocazione e riflessione:
I think with some of these fashion brands there is an erasing of culture, there is a loss of identity. It is a little like death, the death of a culture, it’s a loss of a real meaning” ha dichiarato in un’intervista del 2005.
Il primo esempio è senza dubbio il Prada Death Camp del 1998, presentato al pubblico nell’esposizione Mirroring Evil al Jewish Museum di New York. Si tratta di una scultura che rappresenta un campo di concentramento in miniatura, costruito con un’estetica che imita i prodotti di lusso del marchio Prada. Lo stesso Sachs, pur nella consapevolezza dell’azzardo di tale affermazione, ha spiegato il significato della sua operazione artistica: ci sarebbe un parallelo tra il dramma della Shoah e la contemporanea società di massa, che si basa sul tema della sottrazione dell’identità. I nazisti, infatti, hanno sottratto l’identità alle loro vittime così come il potere dell’advertising tenderebbe in qualche modo a portare via le nostre vere identità e a sostituirle, di volta in volta, con promesse false. Fashion e violenza si intersecano anche nella mostra Cultural Prosthetics (1995–1996) con l’esposizione della Tiffany Glock (Model 19) (1995) e della Hermès Hand Grenade (1995), realizzate entrambe con imballaggi dei grandi marchi dell’industria della moda, in cartone, adesivo termico e inchiostro. Ancora più famosa, forse, è la Chanel Guillotine risalente al 1998. Questa scultura combina una ghigliottina funzionante con il logo di Chanel, creando un ponte tra lusso e brutalità. La scelta di un simbolo di alta moda accostato a uno strumento storico di esecuzione permette una critica ironica e provocatoria verso il consumismo e la cultura dei marchi, che arrivano ad appropriarsi di qualsiasi bene di consumo. Con la Chanel Guillotine, quindi, Tom Sachs ci svela la realtà di una società contemporanea in cui la moda e le altre industrie impongono le loro leggi ai consumatori, vere e proprie vittime di queste logiche.

Il potere della quotidianità: oggetti comuni come vere opere d’arte

In ultima battuta, degna di grandissima nota è stata la mostra Ritual presentata da Sachs nel 2021 a Parigi e a Londra. Si tratta di un’esposizione di riproduzioni di oggetti domestici collocati su piedistalli, realizzati secondo l’estetica sachsiana del bricolage e creati con materiali quotidiani. I soggetti sono i più disparati: un soffiatore per foglie, una telecamera di sorveglianza, una cassa di latte, un cesto per la biancheria, una Kelly Bag, un flacone di detersivo Tide o ancora uno Sprinter. Tom Sachs si confronta dunque con la storia della vita urbana e con le subculture uniche e specifiche della città – in particolare delle corner bodegas di NY – invitando a riflettere sui molteplici sistemi e rituali quotidiani che coinvolgono ogni giorno quegli oggetti di consumo. Emerge il “rituale della lavanderia”, da tempo una necessità essenziale della vita cittadina. Gratuita, facilmente accessibile e aperta 24 ore su 24, è spesso non supervisionata e diventa un rifugio e un centro comunitario per chi non ha altro posto dove andare. Ma non solo. Un oggetto come la telecamera fa certamente riflettere sulle problematiche contemporanee relative al sottile confine tra lo spazio privato e lo spazio pubblico. Con la riproduzione di un soffiatore per foglie Stihl, invece, Sachs si sofferma senza dubbio sul crescente divieto imposto a tali attrezzi in quartieri benestanti come Palm Beach e Beverly Hills. Questa nuova proibizione era percepita come uno spaccato della lotta di classe, poiché il conflitto nasceva tra i giardinieri professionisti, spesso di origine latina e asiatico-americana, e i ricchi, e spesso bianchi, abitanti di tali quartieri, che li assumevano ma si lamentavano del rumore dei loro lavori. Tutte queste sculture hanno, quindi, una relazione diretta con la cultura urbana e dei consumi, mentre le loro qualità formali e i piedistalli su cui sono esposte definiscono ciascuna opera all’interno di una narrazione artistica storica più complessa. È proprio il caso del soffiatore Stihl: oltre al suo attuale significato politico, infatti, la forma slanciata, elegante e antropomorfica della scultura ricorda il Bird in Space di Constantin Brancusi (1923). Più in generale, Tom Sachs tende a riprendere in ogni scultura il modo in cui Brancusi ha sfidato la distinzione tradizionale tra la scultura e il piedistallo; gli oggetti sono selezionati e presentati in modo che le loro forme, insieme ai loro piedistalli, coinvolgano lo spettatore. Questa evoluzione, che corrisponde a un’interrogazione più profonda sui parametri della scultura, certamente si inserisce nella visione non convenzionale di Sachs sulla scultura-come-oggetto e sull’oggetto-come-scultura.

L’essenza della filosofia sachsiana e le sue contraddizioni

A conclusione di questa breve trattazione, è necessario sottolineare un concetto chiave per evitare fuorvianti interpretazioni sul lavoro di Tom Sachs. Lo scultore realizza opere che dialogano con la società dei consumi, del branding, dell’alta moda e della pubblicità, proponendone una visione parodica e provocatoria. Allo stesso tempo però, pur portando avanti autonomamente la sua ricerca artistica, lui stesso ha dato avvio più volte a collaborazioni con grandi marchi di lusso (Prada, Chanel, Hermés…), realizzando opere commissionate oppure beneficiando dei materiali prestati dalle stesse case di alta moda. Dietro a questa apparente contraddizione risiedono la filosofia sachsiana e la sua posizione riguardo alla società contemporanea.
I started out doing work about brands as a way of investigating my feelings about luxury goods: wanting them, being offended by them, both at the same time” ha detto Sachs in un’intervista, aggiungendo “I’m a victim of this system as much as I benefit from the luxury of the experience”.
È quello che lui usa chiamare “consumismo colpevole”. In qualche modo, si tratta della stessa contraddizione che si ritrova anche in un’attenta analisi del lavoro di Andy Warhol che, per primo, a partire dalla fine degli anni 50, ha portato nel mondo dell’arte proprio la società dei consumi. Anche le sue opere infatti strizzano l’occhio al consumismo e usano i meccanismi propri di quella nuova società industriale – la serialità, la pubblicità, la comunicazione, la produzione industriale – attirando l’attenzione degli artisti su quella stessa società dei consumi e sulle sue logiche. Sulla base di questo parallelo, acquisterebbe un senso ancora maggiore la riproduzione realizzata da Tom Sachs nel 2016 delle iconiche Brillo Box (1964) di Warhol, create dal padre della Pop Art con l’uso della tecnica della serigrafia, utilizzata per la vasta diffusione dell’immagine. In Warhol, così come in Sachs, l’arte si è dunque andata a inglobare pienamente nel mondo contemporaneo e nelle sue logiche, pur talvolta contraddittorie.  

Giada Perego