Da sempre moda e arte sono strettamente legate e si intrecciano tra loro per dare vita a vere e proprie opere che non rappresentano più semplici capi d’abbigliamento ma tele su cui viene immortalata la visione artistica degli stilisti. Limitandoci ad analizzare solo l’intervallo degli ultimi cent’anni, possiamo notare come questa commistione tra arte e moda abbia prodotto capi iconici che rappresentano veri e propri manifesti dell’ideologia del tempo. 

Per i futuristi la moda è sinonimo di modernismo e rivoluzione.
L’eleganza esibita dai futuristi possiede un tocco di eccentricità provocatoria, è ben lontana dalla perfezione che non rende mai eleganti. Occorre di tanto in tanto errare e sfumare con una leggera trasandatezza ricca di accortezza e grande disinvoltura. Il primo a teorizzare un vero e proprio guardaroba futurista è Giacomo Balla utilizzando e promuovendo abiti eccentrici, colorati di giallo, rosso e verde, provocatori, semplici nelle linee ma dal forte impatto emotivo.

Negli Anni Venti e Trenta, invece, il sodalizio tra stilisti e artisti si palesa in tutta la sua modernità con varie collaborazioni. 
Picasso e Chanel collaborarono professionalmente in due occasioni, entrambe con Jean Cocteau: nella commedia Antigone (1922) e nel balletto di Serge Diaghilev, Le Train Bleu (1924). In quest’ultima occasione il pittore realizzò il sipario, mentre la stilista vestì i ballerini con la sua collezione di capi sportivi, ritenuta sfacciata e di cattivo gusto.

Tra le collaborazioni più significative vi è quella, a Parigi, tra Elsa Schiapparelli, stilista, costumista e sarta italiana naturalizzata francese, e Salvador Dalì che determina la nascita di capi straordinari, concepiti come vere e proprie tele irriverenti e audaci.  

Uno degli abiti più celebri è il Lobster Dress del 1937. Dal 1934, Dalí aveva iniziato infatti a inserire raffigurazioni delle aragoste nei suoi lavori. Dopo aver seguito con interesse i lavori di Salvador Dalì, nella primavera del 1937, Elsa Schiaparelli lo contattò chiedendogli di disegnare un’aragosta per un abito da sera in organza bianca in quanto era attratta dal legame nascosto che secondo il visionario catalano c’era tra la simbologia delle aragoste e l’inconscio umano, con attenzione alla sessualità. Questo abito bianco, tradizionalmente legato al tema del matrimonio e alla purezza della sposa, con un’enorme aragosta rosso sangue collocata proprio sul davanti, disposta verticalmente dalla regione del pube fino ai polpacci, creò immediato scalpore mostrando il potere dell’innovazione e dell’emancipazione sessuale in una donna.
L’abito aragosta fece il suo debutto come parte della collezione Estate/Autunno 1937 di Schiaparelli, e divenne ancora più iconico quando venne incluso nel corredo nuziale di Wallis Simpson, influencer ante litteram e compagna di Edoardo VIII, e da lei indossato nelle fotografie scattate da Cecil Beaton al Château de Candé, poco prima del suo matrimonio con l’ex monarca britannico. 

Nel ‘51 fa clamore il servizio del fotografo Cecil Beaton per Vogue presso la galleria Betty Parsons di New York. In primo piano i capi di haute couture di Henri Bendel, invece sullo sfondo i dipinti di Jackson Pollock. Il risultato? Critiche e sdegno, eppure da quel momento l’abito inizia ad assumere la stessa valenza di un quadro e la moda inizia ad essere percepita come una forma d’arte.

È del 1965/1966 la collezione Autunno Inverno di Yves Saint Laurent in cui sfilano abiti a tubo in jersey e lana, silhouette definite e blocchi di colore che riproducono le fantasie geometriche dei quadri dell’artista neoplasticista Mondrian. Nel 1965 Yves Saint Laurent crea il celebre Mondrian Dress, in vendita all’epoca a 130 mila lire e conservato oggi come opera d’arte al Victoria and Albert Museum di Londra, un abito che riproduce le linee rigorose e geometriche del pittore olandese.

A questo punto non si può non parlare dell’influenza della pop art sulla moda. Il filo conduttore del movimento è il linguaggio visivo nella quotidianità. Gli oggetti vengono raffigurati come fossero totem della società che si trasforma dalla miseria della guerra. Prima di diventare un artista apprezzato, Warhol, padre indiscusso di questa corrente, lavorava come illustratore di moda per alcune delle più importanti riviste di settore negli Stati Uniti: Vogue, Harper’s Bazaar, Glamour.
Fu questa esperienza che mostrò a Warhol il potere delle immagini e della comunicazione sulla massa. La moda e le immagini patinate avevano creato nell’artista di Pittsburgh un’idea di come l’arte potesse spezzare la routine e diventare “popolare”, Pop per l’appunto. Warhol con Souper dress (1960) ci mostra come moda, arte e industria possano fondersi in un’unica immagine. Si tratta di un abito dalla linea dritta in carta, cellulosa e cotone, raffigurante l’immagine in sequenza della nota lattina di zuppa Campbell’s stampata in serigrafia.  
Una copia di questo abito è esposta al Metropolitan Museum of Art, di New York.

Dopo il Souper Dress, tanti stilisti hanno celebrato questa corrente artistica: da Halston, che collabora a lungo con il genio della Factory, a Gianni Versace, che nel 1991 realizza un’intera collezione intitolata proprio “Pop Art”, di cui l’abito stampato con il volto di Marilyn e incastonato di pietre preziose è uno dei pezzi più belli di sempre, tanto che un esemplare si trova oggi esposto al Met Museum.
L’”Andy Warhol della moda”, Jeremy Scott, invece, ha presentato per Moschino diverse collezioni che riprendono l’idea del consumo attraverso loghi e marchi, un concetto che Warhol aveva esplorato fin dall’inizio della sua carriera. Gli abiti evocano così un messaggio simile al suo, portandolo sulle passerelle. La collezione uomo di Moschino del 2013 presentata a Milano era dedicata ai grandi marchi di detersivi e igiene domestica mentre, nel 2014, la collezione comprendeva pattern a tema McDonald’s.

Nell’ultimo decennio invece, la moda e l’arte si trovano in un punto di intersezione affascinante, dove innovazione tecnologica e tradizione artigianale si fondono per creare esperienze uniche e memorabili. 
Molti designer collaborano con artisti per creare collezioni ispirate a opere d’arte, trasformando gli abiti in “tele” che stupiscono per l’uso innovativo della tecnologia. Si utilizzano materiali intelligenti e tessuti a cambiamento di colore. Questi tessuti reattivi, in grado di adattarsi alle condizioni ambientali e ai movimenti del corpo, offrono una combinazione di funzionalità ed estetica senza precedenti. Inoltre, avendo una maggiore attenzione all’ambiente, i brand di moda si impegnano a utilizzare materiali riciclati e biodegradabili, riducendo l’impatto ambientale della produzione. 
A tal proposito, tra le collezioni più sostenibili presentate recentemente, bisogna citare quella di Stella McCartney, Primavera/Estate 2023, green fino all’87% del totale dei capi, mostrata al pubblico durante la Paris Fashion Week. La collezione nasce da uno spunto artistico, quello dello slogan del leggendario artista giapponese Yoshitomo Nara, “Cambia la storia“, posto anche sul maglione crema a caratteri rossi che sfila. Una frase che, applicata alla moda di Stella, è immediatamente riconducibile all’intento della designer di promuovere un cambiamento della mentalità delle persone, orientandole ad acquisti sostenibili nel tentativo di salvare il pianeta e i suoi abitanti.


Oggi, quindi, moda e arte si trovano in un periodo di grande fermento e innovazione. La tecnologia e la sostenibilità guidano le tendenze, mentre le collaborazioni tra artisti e designer aprono nuove strade di espressione creativa. Questo connubio tra innovazione e tradizione continuerà a plasmare il futuro di entrambe le discipline, offrendo al pubblico esperienze indimenticabili e uniche che non finiranno mai di stupire e confondere.

Eleonora Pertegato