Durante la nostra permanenza a Sanremo, abbiamo avuto il piacere di intervistare Andrea Benassai, musicista, produttore e direttore d’orchestra che, nel contesto della kermesse sanremese, ha diretto i Modà.

RM: Come sono andate le prove?

AB: Beh, le prove sono sempre un momento meraviglioso per me. In realtà sono la cosa che preferisco fare, anche se sembra strano da dire. Sono quel momento in cui si parla veramente di musica: si parla con i musicisti e per i musicisti, sono un contesto di grandissima soddisfazione per chi ha lavorato per arrivare sopra a questo palco. L’idea dell’andare in diretta televisiva non ha lo stesso potere su di me. Preferisco di gran lunga la parte, quella proprio autentica, in cui si fa musica vera. Tant’è che sono uno di quei direttori che non soffrono di ansia sul palco. Perché per me il momento della prova reale è quando leggiamo per la prima volta un brano. Quello è un momento davvero divertente, ma anche un po’ di ansia. Poi c’è sempre, come nella vita, un momento dell’apparire e un momento dell’essere. Per me il momento dell’essere ha comunque sempre più importanza. È più rilevante, più significativo. Il mio primo è Sanremo è stato addirittura nel 1994.

RM: Chi hai arrangiato in quell’anno?

AB: Quello era l’anno in cui ero coi giovani di Sony, c’era una squadra di ragazzi. Ho un ricordo meraviglioso di quel Sanremo. Ora faccio una digressione perché ho passato tantissimo tempo a parlare di musica con il compianto maestro Pippo Caruso, con il quale avevo instaurato un rapporto di grande amicizia. Ero veramente giovane, al tempo avevo 26 anni, quindi lui mi aveva in un certo senso preso sotto la sua ala. Sanremo è un ambiente in cui per un ragazzo molto giovane si possono trovare un po’ di difficoltà, e quindi lui in quel momento aveva visto in me un fratellino minore da accompagnare.

RM: Come è cambiato il tuo approccio dagli arrangiamenti alla direzione di un’orchestra?

AB: Posso fare un paragone. Fare gli arrangiamenti è come pensare ad una ricetta culinaria: solo quando si vanno ad unire gli ingredienti e a svolgere la preparazione, si capisce come realizzare quel piatto; quindi l’approccio cambia da un piano astratto a un piano molto più fattuale. Molto spesso si pensano cose che poi non sono così funzionali e, piano piano, col tempo, si impara ad esprimere meglio attraverso i fatti quello che si è pensato in maniera astratta. Bisogna sempre ricordare che la musica è qualcosa che in un certo senso ci consente di “decorare” il tempo in maniera astratta e in maniera in qualche modo non fisica, passando poi alla realizzazione concreta. Quindi l’approccio è semplicemente questo: un passaggio dall’astratto al reale.

RM: Cosa si prova ad immergersi insieme a tanti musicisti nell’atmosfera del palco?

AB: È sicuramente una cosa meravigliosa perché è come veder realizzato un qualcosa che si è soltanto pensato. Una delle cose che mi affascinano di più della musica è proprio il fatto che tutte le volte che si deve passare dal piano astratto al piano fisico si abbia bisogno degli altri. Si tratta di un passaggio che non possiamo compiere da soli. Più si allarga il numero degli attori in campo, andando dal quartetto di archi fino ad una grandissima orchestra di professionisti come quella di Sanremo, più soddisfazione c’è, in qualche modo, nella condivisione che si crea. Quando sono sul palco per fare le prove insieme ai musicisti percepisco questo rapporto di grandissima collaborazione: siamo un po’ tutti sullo stesso piano e quando siamo sullo stesso piano, anche se c’è un direttore, siamo tutti rivolti a realizzare un obiettivo comune.

RM: Pensi che l’orchestra permetta una connessione maggiore con il pubblico? Come è cambiata negli ultimi anni la percezione in tal senso?

AB: Sicuramente la presenza di una grande orchestra a Sanremo ha cambiato i valori che scendono in campo nella musica e nel gusto comune. Quando ci troviamo su un palco così importante con un’orchestra molto ampia facciamo sì che le nostre percezioni vengano condivise anche dal grande pubblico. Io insegno a dei ragazzi giovanissimi che frequentano un corso di laurea di 3 anni e vedo tutti abituati a fare musica come se giocassero a Tetris, cioè con i software, con l’idea del prendere le cose e incastrarle insieme in un mondo che è puramente virtuale. Devo dire che l’orchestra di Sanremo riporta in qualche modo il gusto, la necessità di suoni veri, di archi, di ottoni, di batterie, finalmente suonati, di chitarre e, in un certo senso, di una solidarietà che ha molto più a che fare con quello che è il nostro essere umani. Perché del resto noi siamo umani e siamo rappresentati da una serie di suoni che ci appartengono e che stanno nel nostro DNA. Credo che questo sia il grande pregio del poter fare Sanremo con i musicisti.

RM: Sei d’accordo con le classifiche? Hai un pezzo preferito oltre ovviamente a quello dei Modà?

AB: Devo dire che è difficile rispondere a questa domanda perché io reputo che la musica sia tutta bella. Tutta, proprio tutta. Il problema non è mai della musica, il problema è della chiave con la quale noi riusciamo a leggerla e a interpretarla. Quindi se uno riesce a sviluppare, in qualche modo, un pochino di cultura musicale, un pochino di capacità di sintesi, è in grado sicuramente di apprezzare Tony Effe, Giorgia, Cristicchi, Brancale e tutto quello che è il panorama della musica. Non esiste, secondo me, musica più o meno apprezzabile: sono i nostri strumenti che la rendono più o meno apprezzabile. Sanremo è tutto di grandissimo livello e sono molto contento, soprattutto in linea generale, che ci sia un po’ un ritorno alla vera scrittura, alla vera espressione del canto, alla vera espressione del suono e della composizione. Questa è per me la cosa più importante. Quando trovo questi elementi sicuramente non posso fare altro che esserne molto contento. Peraltro c’è un piccolo aspetto che trovo interessante osservare qui da Sanremo: quanto il pubblico dei social, il pubblico che sta a casa, sia abituato alle divisioni. “Questo è bello”, “Questo è brutto”, “Questo a casa”. Quando in realtà qua a Sanremo l’atmosfera tra noi tutti (i cantanti, i musicisti, i direttori…) è un’atmosfera estremamente sociale, di grandissima condivisione. È molto divertente vedere che qui che ci dovrebbe essere l’arena della gara, qui che ci dovrebbe essere la divisione, siamo invece tutti uniti, tutti amici, tutti con il piacere di fare qualcosa che in qualche modo arrivi alle persone.

RM: Com’è il dietro le quinte per un direttore? Ci sono stati degli intoppi?

AB: Beh, diciamo che Sanremo è la patria degli aneddoti e dei casini. Ma è proprio quello che dà il sale. In realtà, quando si prepara qualcosa per il Festival, si prova veramente tanto: prima in studio innumerevoli volte, poi si va a fare le prove a Roma, poi si viene a fare le prove a Sanremo. Tutto il prevedibile è in qualche modo già stato affrontato. È l’imprevisto, in un certo senso, che dà il sale, che rende tutta questa avventura un po’ più divertente. Ci sono piccole cose che succedono. Però è anche molto divertente affrontarle. Tra l’altro Sanremo è composto da uno staff di professionisti spaventosi che si occupano dell’edizione anche tecnica. Perciò è bello trovarsi di nuovo in comunione anche con i tecnici, con i collaboratori, che sono qui proprio per risolvere questo genere di problemi. Ma, in fondo, tutto ciò è il brio aggiuntivo dell’esperienza di Sanremo.

RM: C’era quando Kekko dei Modà è caduto?

AB: No, non ero presente. Peraltro è successa una cosa anche molto divertente per quanto mi riguarda. Siamo andati a fare le prove generali, che sono estremamente concitate, cioè sono prove che hanno esattamente le stesse tempistiche della serata. In pratica, non c’è assolutamente tempo da perdere. Siamo partiti con il brano e io ho sentito Kekko che era in una forma particolarmente smagliante. Quando sono sceso dal palco, gli ho mandato un messaggio, perché nell’immediato bisogna comunicare tramite messaggi, e lui mi ha detto: “Mi sono rotto una costola”. E quindi ho apprezzato tantissimo il fatto che, nonostante l’infortunio, lui sia andato su quel palco alle prove, quindi anche in un contesto “meno significativo”, e abbia dato non il 100%, ma il 120%. Comunque volevo rassicurarvi: ha forse una costala incrinata o due, ma essendo lui un grandissimo leone, un grandissimo combattente, il fatto di soffrire mentre canta, in realtà, gli fa dare ancora di più.

Renato Milone