Questa settimana abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il pianista Fabrizio Paterlini, che attraverso le emozioni trasmesse dalla sua musica, continua a stupire e a coinvolgere gli ascoltatori. La nostra chiacchierata è partita del suo nuovo album Attitude, una raccolta di cover grunge disponibile dal 21 marzo in digitale.
RM: Com’è nato il progetto Attitude e che valore ha nel tuo percorso artistico?
FP: Il progetto Attitude è nato negli anni. Qualche anno fa mi sono accorto che un mio brano chiamato Fragments Found aveva, in maniera del tutto involontaria, una progressione armonica molto simile a Heart-Shaped Box dei Nirvana. Quando ho realizzato l’esistenza di questa affinità, ho iniziato a portarlo dal vivo, sui palchi, facendo un medley tra quello che era il mio brano e quello dei Nirvana. Sostanzialmente andavo a fondere questi due brani e mi sono accorto che il pubblico che riconosceva le note di Heart-Shaped Box era entusiasta di questo tipo di medley. Dopo i concerti, solitamente mi fermo a parlare con le persone che hanno piacere di fare due chiacchiere e in molti mi chiedevano: “ma hai fatto i Nirvana, no?”. Tra l’altro, i Nirvana io li ho vissuti in prima persona perché avevo vent’anni quando uscivano quei dischi. Io li amo e li ho amati moltissimo, quindi per me è stato veramente un motivo di orgoglio poterli inserire nei miei live. Quando ho iniziato a fare questo piccolo esperimento mi sono detto “perché no? Perché non provare a omaggiare un periodo a me così caro?” Stiamo parlando del periodo del grunge, degli anni ’90, un periodo che ho nel cuore. Ho cominciato a domandarmi quali potessero essere i brani che ho amato di più e che avrei voluto tradurre in pianoforte. Diciamo che il seme di questo processo è stato proprio quel brano dei Nirvana che tra l’altro non è nemmeno stato inserito nella raccolta finale di canzoni, ma che è stato ugualmente l’inizio di un percorso che mi ha portato ad aggiungere, via via, altri brani che avevo suonato dal vivo nel corso del tempo. Negli anni mi era capitato di portare in live pezzi dei Soundgarden o dei Pearl Jam, per citarne alcuni, e alla fine mi sono deciso a chiudere questo percorso pubblicando questa piccola raccolta.
RM: Sappiamo che nella tracklist di quest’album è presente una cover di Nothingman dei Pearl Jam. Che rapporto hai con questo brano e perché in particolare l’hai scelto?
FP: Nothingman è incluso in uno degli album che amo di più dei Pearl Jam, che è Vitalogy. Inizialmente avrei voluto portare Daughter o Indifference, che per me restano tra le loro canzoni migliori. Tuttavia, scegliere un brano da poter suonare al piano significa anche avere la consapevolezza di riuscire a rispettarlo nella sua essenza. Non si tratta di una semplice cover, ma di cercare di preservarne l’integrità, di farne sopravvivere il significato più profondo. E allora ho subito pensato a Nothingman, una delle ballad dei Pearl Jam che amo di più in assoluto (e probabilmente non solo dei Pearl Jam). Ho subito avuto la sensazione che quello fosse il brano giusto da trasferire al pianoforte. È un brano che mi colpisce sempre con la sua semplicità e al contempo profondità. Ha pochi elementi, ma che ti trasportano direttamente nel mondo della musica. Una delle caratteristiche che apprezzo maggiormente risiede proprio nel fatto che possano trasparire l’immediatezza, la comunicazione diretta, intima e senza filtri di ciò che il compositore prova. Lo reputo un brano che in qualche modo si sposa bene con il mio modo di suonare. Io poi l’ho un po’ dilatato nel tempo, l’ho un po’ rallentato, ma ho comunque cercato di adattarmi ad esso per cercare di rispettarne la vena un po’ malinconica, quel senso di rimpianto, di perdita che si percepiscono poi anche dal testo.
RM: Come ti sei mosso in relazione all’arrangiamento del brano? Qual è la componente personale che vorresti far trasparire con la tua cover rispetto alla versione dei Pearl Jam?
FP: Io ho soprattutto cercato di mantenerne l’integrità e l’essenza. Ho provato ad avvicinare questo brano ancora di più all’ascoltatore. Ho un modo di suonare il pianoforte che interpone tra il martello e le corde un feltro che va, in qualche modo, ad ovattare il suono dello strumento, esaltandolo. Questo feltro va poi a catapultare ancora di più l’ascoltatore nella tavola armonica del pianoforte, regalando una serie di suoni che non si potrebbero sentire con lo strumento a pieno volume. Sostanzialmente ho cercato di portare questo brano ancora più “spogliato” della versione originale, quasi sottovoce, in chiave ancora più minimalista proprio per avvicinarlo maggiormente all’ascoltatore.
Il pianoforte, del resto, ha questo grande pregio/difetto: è musica strumentale e, facendo venire meno l’elemento del testo, dà la possibilità a chi lo ascolta di sovrapporvi il proprio testo, quello che desidera. È un modo per fare sì che le persone si approprino ancora di più di quel brano, ascoltandolo senza parole, senza la storia che, in questo caso, è raccontata da Eddie Vedder. In questo senso ho provato a proporlo in chiave ancora più personale, ancora più vicina a chi ascolta: questo è alla base del tentativo di portare Nothingman in versione strumentale. Non ho voluto fare cover per il gusto di fare delle cover. Ho scelto di mettermi veramente tanto in gioco con queste reinterpretazioni, cercando di creare un equilibrio, talvolta difficile, tra quello che è, per così dire, il rispetto dovuto a un’opera d’arte e il mio sentire e il mio vissuto in relazione a tali opere. E il suono per me è una parte fondamentale di questo processo perché viene dopo vent’anni di ricerca. Sono quasi vent’anni che cerco il suono del pianoforte giusto, ed è una ricerca che non finisce mai. È una parte importante, fondamentale del percorso.
RM: Hai già delle idee su come portare questo album nella dimensione live rispetto ai precedenti?
FP: Sì, diciamo che la cosa bella di questo progetto è che si integra molto bene all’interno della dimensione live dei miei spettacoli, soprattutto quando sono in piano solo, perché è evidente che ciò che mi piacerebbe fare con questo album, rispetto agli altri che ho realizzato, sia suonarlo dal vivo con un pianoforte verticale e non con un pianoforte a coda. La fragilità del suono che si ottiene attraverso il feltro e il verticale è ben diversa dalla maestosità che deriva da un pianoforte a coda, da un pianoforte da concerto. Questo tipo di brani che, a mio parere, si caratterizzano soprattutto per l’intimità, la fragilità e l’ascolto attento delle sfumature, si sposano meglio con un tipo di strumento più contenuto, come il pianoforte verticale. Di conseguenza, mi immagino un palco abbastanza modesto con un grande occhio di bue sul pianoforte verticale e una vera attenzione proprio all’ascolto di tali piccole sfumature e di tutte le emozioni che questi brani suscitano in primis in me, mentre li suono, e inevitabilmente, mi auguro, nel pubblico. Avendo due pianoforti, immagino di utilizzare il pianoforte da concerto per quella che è una parte del mio repertorio e poi di dedicare una serie di momenti più intimi proprio al nuovo album. Il pianoforte, del resto, è uno strumento incredibile. Già parlando di pianoforte a coda e pianoforte verticale, entriamo in due universi sonori completamente diversi e stiamo semplicemente parlando di due strumenti che alla fine sono lo stesso ma che si caratterizzano per risonanze e volumi completamente diversi. Penso che il pianoforte possa essere estremamente intimo, fragile, sussurrato, ipnotico e, in queste caratteristiche, è sicuramente grunge.
RM: L’esigenza di trasmettere un messaggio senza filtri, del resto, è molto grunge. La fame, il bisogno di comunicare qualcosa, soprattutto…
FP: E questa urgenza emotiva io la sento molto. Questo urlo, questa rabbia, questa urgenza di dire… Il pianoforte ha questa immediatezza, questa emotività forte. E infatti, in questo senso, è molto grunge.
RM: Tu sali su diversi palchi in diverse parti del mondo. Come cambia, se cambia, la trasmissione di emozioni con un pubblico diverso?
FP: Cambia perché, in effetti, cambia il pubblico. È qualcosa di molto interessante perché, a seconda dell’audience e del tipo di platea che si ha di fronte, ci si rimodula, ci si reinventa. Ciascun concerto è diverso perché diverse sono le emozioni che io trasmetto ma, anche e soprattutto, quelle che la gente restituisce a me. C’è il pubblico più caloroso che fin da subito vuole trasmetterti il suo entusiasmo e sarà, per certi versi, un concerto più semplice o comunque più caldo, fatto di battute e ribattute. C’è poi il pubblico che è un po’ più silenzioso. C’è chi ascolta la musica con gli occhi chiusi, chi invece è molto concentrato. C’è chi si sofferma molto sui dettagli delle mani e vuole osservare come queste si muovono: sono le persone che di solito si siedono sempre nelle prime file, che vogliono osservare come il pianista suona. Quindi, in realtà, ci sono effettivamente grandi differenze in base al tipo di pubblico. Quello che non cambia, secondo me, è però la restituzione. Alla fine del concerto, quando mi trovo con questi ragazzi, queste persone che hanno scelto di venire a sentirmi quella sera, ciò che mi trasmettono è sempre una grande emozione, una gratitudine immensa che provo nel percepire di avere la fortuna di ascoltare le loro storie. Mi raccontano di quanto la musica li curi, di quanto li faccia stare bene e questo succede in Cina, come a Londra, come a Madrid. In questo siamo davvero tutti uguali e in questo credo che abbiamo una capacità di recepire l’invisibile che ci accomuna in tutto il mondo. C’è chi applaude più o meno vigorosamente, ma alla fine la musica arriva a tutti nello stesso modo e tanti te lo vogliono manifestare, magari non in sala, ma successivamente te lo manifestano e ti ringraziano. Io ringrazio sempre loro perché in realtà sono io che mi sento di ringraziarli e anche tanto. Però ecco, per concludere, direi che ogni pubblico è diverso, ma alla fine l’output è sempre lo stesso, cioè quello dell’emozione che oltrepassa le latitudini.
RM: Grazie per questi preziosi punti di vista…Ho ascoltato i brani e sono davvero ricchi di sfumature.
FP: La cosa interessante di questo progetto è che parliamo in realtà di un album di cover, ma mi affascina davvero molto che l’elemento personale sia qui altissimo. È proprio un progetto che parla tanto di me e di quello che sono stato, di quello che ho portato, da allora ad oggi. A volte ci sono pregiudizi sulle cover, su chi le fa, ecc., ma ancora una volta è affascinante notare che, come per tutte le cose, c’è sempre un angolo speciale che è bello scoprire. E nel mondo di oggi, in cui veramente è facilissimo esprimere giudizi senza sapere, senza conoscere, è bello percepire che ci sia una curiosità, un interesse, che ho trovato nelle tue domande, nelle tue parole e che ha fatto sì che questo sia stato veramente un bel momento di confronto.