Oggi più che mai, la nostra società sta andando verso la maturazione di nuove consapevolezze riguardanti l’universo delle donne e la necessità di ripensare alcune coordinate del nostro mondo in termini di parità e di diritti femminili. Senza mezze misure, infatti, le donne di tutto il mondo denunciano apertamente le numerosissime disparità: da quelle sul lavoro, a quelle connesse all’accesso all’istruzione, da quelle di rappresentanza politica, a quelle sperimentate ogni giorno nei rapporti quotidiani. Per non parlare poi del tema della violenza di genere: sono troppi gli episodi di violenza domestica, di molestie sessuali e di femminicidio denunciati oggigiorno e, probabilmente, ancora di più sono quelli non denunciati. Questa triste presa di coscienza ha sviluppato una maggiore sensibilità rivolta alla causa femminile e ha portato ad una profonda riflessione sulle modalità con cui le donne possono esprimere la propria identità e rivendicare il proprio spazio nella società.

Alla luce di questo interesse, pare utile guardare al mondo dell’Arte, la quale, dal canto suo, si è sempre affermata come veicolo di messaggi e di convincimenti sociali.

Il ruolo delle donne nell’arte e la nascita della Body Art

L’Arte è stata per lungo tempo un mondo quasi tutto al maschile: pittori, scultori, critici, proprietari di gallerie… Le donne e il loro corpo comparivano solo come oggetto rappresentato e, dunque, solo come elemento artistico passivo piegato alla manipolazione dell’artista-uomo: dalla Venere di Botticelli, all’Olimpia di Manet, da Les Demoidelles d’Avignon di Picasso, alle più provocanti rappresentazioni surrealiste.

In parallelo agli sviluppi dei linguaggi artistici, agli inizi degli anni 60, è nato un nuovo modo di utilizzare il corpo delle donne nell’Arte, testimoniato nelle Sculture viventi di Pietro Manzoni (1961), che era solito firmare i corpi di alcune modelle, o riscontrabile nelle Anthropometries (1960) di Yves Klein che usava le modelle, immerse nell’IKB (termine associato ad un tipo specifico di colore blu inventato dallo stesso Klein e al processo di creazione di esso), come “pennelli viventi”, premute sulla tela bianca a lasciare impronte. Queste sperimentazioni hanno aperto la strada alla neoavanguardia della Body Art che, tra gli anni 60 e 70, ha per la prima volta portato ad un’arte in cui lo stesso corpo dell’artista diveniva il materiale delle opere. Gina Pane, una delle voci più esemplari del gruppo, sosteneva che “il corpo e la sua gestualità sono una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro“, sottolineando come il corpo materiale diventasse per questi artisti un veicolo di messaggi e riflessioni. E dunque la Body Art, incorporando anche il linguaggio della performance e del coinvolgimento del pubblico, ha saputo esplorare tramite il corpo questioni identitarie, sociali, politiche, e culturali, come i diritti umani, la violenza e, appunto, il femminismo.

Il significato sociale di questa esperienza artistica: un processo di liberazione femminile 

D’altra parte, non è sicuramente secondario ricordare il contesto storico-sociale entro cui si è sviluppata questa esperienza artistica, fortemente intrisa di spirito di rivendicazione e di contestazione sociale che, senza dubbio, si legava al clima dei moti rivoluzionari del 68. Tra le cause portate avanti dalle sommosse, oltre alla libertà dei corpi, vi era anche quella legata proprio al processo di liberazione femminile, una vera “rivolta nella rivolta”. Si tratta del “neofemminismo” che ha promosso una rivoluzione culturale basata sull’affronto diretto alla struttura patriarcale della società: “La donna non va definita in rapporto all’uomo…L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna” scriveva Carla Lonzi nel Manifesto del gruppo “Rivolta femminile” da lei fondato, nel 1970.

Pur riconoscendo che l’esperienza della Body Art si sia nel tempo evoluta lungo binari ben diversi, è però impossibile non riconoscere il suo legame con questo spirito femminista. La Body Art si è infatti presentata, in più casi, come mezzo per esprimere la critica sociale delle donne, per esplorare la loro identità di genere e ridefinire le rappresentazioni del corpo femminile, sfidando i tabù (nudità, ciclo mestruale, violenza femminile, morte…) e la mentalità patriarcale della società, nell’ottica di una maggiore emancipazione e di un maggiore riconoscimento sociale delle donne. Sintomo di questo clima generale, è stato l’avvento di moltissime artiste donne tra i Body Artists. Questa esperienza ha permesso infatti, finalmente, a molte più donne di divenire soggetto attivo nella creazione artistica: le donne sono diventate le ideatrici e le realizzatrici delle opere e i loro stessi corpi sono diventati gli oggetti da loro stesse rappresentati.

Vediamo alcune delle artiste e delle opere più importanti che si sono affermate in questo universo femminile:

Gina Pane (1939-1990) 

Nata in Francia da madre austriaca e padre italiano e cresciuta a Torino, Gina Pane è stata una delle esponenti più importanti della Body Art, sviluppando il suo lavoro sui temi della violenza fisica e del dolore. All’interno della sua lotta femminista, ha sicuramente avuto un ruolo di grande rilievo l’opera Azione Sentimentale, messa in scena nel 1973 a Milano alla Galleria Diagramma e, nello stesso anno, presso il Centre Pompidou di Parigi. L’esecuzione della performance è stata documentata da registrazioni video. L’artista si è presentata davanti a un pubblico tutto femminile, indossando un completo bianco (che rimanda a una vestale o a una sposa cristiana) e reggendo tra le mani un mazzo di rose rosse. Pian piano, ha iniziato a staccare le spine dalle rose e ha cominciato a conficcarsi queste ultime nel braccio, provocandosi svariate ferite; nel frattempo, la fuoriuscita di sangue ha man mano portato a macchiare la veste candida. Le rose rosse sono poi state sostituite da rose bianche e, a conclusione della performance, l’artista ha utilizzato una lametta per procedere a tagliarsi il palmo della mano. Si tratta sicuramente di un’opera complessa, ma che parla chiaro: è la messa in scena di un martirio, il sacrificio imposto alla donna per rispettare le aspettative della società e, in particolare, il suo ruolo di moglie e madre voluto dalla più rigida morale cristiana. Oltre all’evocativa contrapposizione tra il colore rosso (sangue e violenza) e il colore bianco (veste e castità), molti altri sono infatti i rimandi alla cristianità; si pensi, ad esempio, alla veste candida e alle ferite sulle braccia, che evocano il sanguinamento di Cristo in croce e il lenzuolo che ne avvolse il corpo. Nello stesso anno, Gina ha presentato anche l’opera Il bianco non esiste, davanti al pubblico di Los Angeles. In questa rappresentazione, l’artista si è ferita il volto con una lametta e ogni taglio da lei inflitto era destinato a simboleggiare un dolore e un abuso subìto da una donna. Con il suddetto gesto, si è anche resa inevitabile una riflessione sulla bellezza stereotipata e perfetta imposta dalla società, alla quale l’artista, sfregiandosi il viso, pare essersi voluta ribellare.

Carolee Schneemann (1939-2019) 

Videoartista e performer statunitense, è stata una delle pioniere della Body Art e dell’Arte femminista. Ha esordito nel 1963 con l’opera Eye Body: 36 Transformative Actions for Camera, ma viene ricordata specialmente per la scandalosa performance Interior Scroll risalente al 1975, realizzata al Festival del Femminismo di New York. Carolee Schneemann, in piedi su un tavolo, leggeva un testo (“Cezanne era un gran pittore”) scritto su un rotolo di carta che ha estratto lentamente dalla propria vagina. L’idea alla base era semplice ma potente: il testo, proveniente dall’interno del corpo, simboleggiava una lettura interiore, un’identità femminile che si guardava dentro, libera dai condizionamenti esterni. Inoltre, l’uscita dalla vagina andava a connettere la creazione artistica con l’azione del parto e con la tematica femminile della maternità, spesso evocata dalle Body Artists. Una riflessione simile è stata portata avanti anche da un’altra artista della Body Art, Shigeko Kubota (1937-2015), nei Vagina Paintings (1965), dipinti controllando il pennello attraverso la propria vagina. Quest’opera può essere interpretata in opposizione alla tecnica del dripping violento e “maschile” di Pollock, oltre che come espressione della volontà di dichiarare un ruolo attivo delle donne nell’arte e di esprimere il controllo del proprio corpo, in aperta denuncia alle Anthropometries di Klein, nelle quali le donne erano usate solo come pennelli mossi dall’uomo. C’è inoltre un rimando abbastanza esplicito al ciclo mestruale, fino a quel momento considerato un tabù.

Ana Mendieta (1948-1985)

Giovane artista di origine cubana morta in circostanze abbastanza sospette, anche Ana Mendieta ha proposto una ricerca sul corpo umano indirizzata alla causa femminile. Nelle sue opere, traspare spesso una riflessione sulla violenza di genere e sul rapporto del corpo femminile con la natura e l’elemento ancestrale. Una delle sue opere più incisive è stata quella conosciuta come Rape Scene del 1973. Dopo la notizia dello stupro e dell’uccisione di Sara Ann Otten, una studentessa della sua stessa università, l’artista ha deciso di riprodurre davanti agli occhi dei suoi compagni di corso la stessa violenza, a denuncia non solo della drammatica vicenda capitata a Sara, ma di tutte le molestie sessuali subite dal genere femminile. La performance è avvenuta nel suo appartamento e, quando i suoi compagni hanno varcato la soglia della stanza, si sono trovati di fronte una scena spaventosa: Ana, nuda dalla vita in giù e coperta di vernice rossa, con gli slip abbassati alle caviglie e il busto disteso su un tavolo. Oltre a quest’opera, un’altra creazione molto nota della cubana è senza dubbio la serie Siluetas (1973-1980) in cui l’artista ha usato il suo corpo come strumento per porsi interrogativi relativi ai concetti di identità, spiritualità e connessione con la terra. Infatti, si tratta di un gruppo di riproduzioni in cui Ana utilizza direttamente il suo corpo, operando in contesti immersi nella natura, specialmente in Messico, impiegando elementi quali sabbia, neve, ghiaccio, fuoco, foglie e terra. Le opere sono testimonianza di un lavoro sulla relazione tra il corpo della donna e l’ambiente, mostrando la condizione di un corpo in armonia con la natura e la terra, in un rapporto quasi ancestrale.

Yoko Ono (1933- oggi)

Ultima, ma non per importanza, è l’artista Yoko Ono, nata a Tokyo e naturalizzata statunitense, conosciuta per la sua controversa personalità oltre che per il matrimonio con John Lennon. Nell’ambito della Body Art e del rapporto con la questione femminile ha sicuramente dato un contributo notevole con l’opera Cut Piece (1964), realizzata a metà degli anni 60 e messa in scena per la prima volta allo Yamaichi Concert Hall (Kyoto). Yoko Ono si è seduta su un palco alla presenza del pubblico, indossando un abito semplice. Rimanendo immobile e silenziosa, ha offerto delle forbici e invitato gli spettatori a tagliare in pezzi il suo abito. Uno alla volta, i partecipanti si sono avvicinati e hanno tagliato piccole porzioni del tessuto, fino a quando non è rimasta quasi completamente nuda. L’immagine di Yoko Ono, con i vestiti tagliati mentre è inginocchiata a terra, evocava con forza la condizione femminile di una donna inerme, costretta a sopportare in silenzio molestie e umiliazioni, ridotta a oggetto e spogliata dei suoi diritti. Questa visione ha pertanto raffigurato appieno la vulnerabilità della donna nella società odierna, accennando al problema della violenza di genere. La stessa messa in scena è stata poi riproposta in altre città, ogni volta con un impatto incredibilmente potente.

Questi sono solo alcuni degli esempi di donne forti, padrone dei propri corpi e portatrici di grandi ideali. Se oggi la difficile situazione associata alla condizione femminile non pare essere ancora superata, senza dubbio queste artiste hanno saputo, a loro tempo, provocare l’opinione pubblica, attirando una maggiore attenzione sul tema dei soprusi e delle ingiustizie subite dalle donne. Indipendentemente da questo excursus strettamente connesso al tema certamente prioritario dell’emancipazione, rimane comunque importante concludere questa breve trattazione invitando il lettore a riflettere in relazione alla distinzione di genere nel mondo dell’arte. Si suggerisce, infatti, di evitare di ragionare eccessivamente per compartimenti, rischiando pertanto di parlare troppo spesso di “arte maschile” e “arte femminile”, ma provando al contrario a valutare l’arte solo in quanto tale, come “arte buona” o “arte cattiva”, garantendo, solo in tal modo, la vera parità tra gli artisti, a prescindere dal loro genere.

Giada Perego