Here, film diretto da Robert Zemeckis, è un inno alla vita: un dolce ma schietto invito a non sprecare il nostro tempo.

Ci sono opere profonde nella loro semplicità, rappresentazioni che, una volta osservate, ti lasciano dentro qualcosa, ti fanno riflettere sulla vita, sulle persone che ne fanno parte, su te stesso, su comportamenti ed emozioni. Ed è quello che succede quando i titoli di coda riempiono il nero del grande schermo all’ora e 44 minuti di Here, film diretto da Robert Zemeckis, adattamento cinematografico del (meta)fumetto scritto da Richard McGuire.

Nell’opera si infrangono molte delle regole di ambientazione spazio-temporali a cui siamo abituati: inquadratura fissa su una stanza, la stanza di una casa, una casa dove passano famiglie, individui, storie. Here è una storia che racconta storie; racconta dello scorrere del tempo, parla di generazioni, rapporti, amori, sogni e ambizioni. Di dolore e gioia. Di conquiste e delusioni. Here racconta la vita, la nostra, quella di chi, prima di noi, ha calpestato la stessa strada e di chi la percorrerà in futuro. Se i salti temporali del racconto possono a tratti confondere lo spettatore, sono in realtà funzionali all’obiettivo. Avanti e indietro, come i giri della nostra mente, troppo spesso occupata – proprio come quella dei personaggi del film – a pensare a quello che è stato e a quello che sarà. I protagonisti di cui vediamo narrate le vicende si interrogano sugli sbagli commessi e sui passi da compiere per raggiungere grandi ambizioni, e solo troppo tardi si accorgono di quanto sia importante focalizzare l’attenzione sul presente, il luogo da cui rifuggiamo più spesso, che siamo meno abituati ad osservare. Forse perché ci fa paura. Forse perché temiamo il confronto diretto con noi stessi, con le verità che potremmo scoprire, con le nostre insoddisfazioni e persino con i nostri desideri.

Questo è il grande insegnamento di Here. Concentrarsi sul qui e ora. Sulle emozioni che percepiamo, le persone che viviamo, sui sogni che abbiamo il diritto di rincorrere. Dobbiamo gustare ogni momento, anche quello che ci appare come il più banale. Perché la vita è fatta di momenti, l’universale è fatto di particolari. E se ci dimentichiamo dei momenti particolari, alla fine, non avremo vissuto per niente. Dignità alle emozioni, che ci rendono quello che siamo, che si depositano lì, tra un battito e l’altro, sedimentano e ci formano. Noi siamo emozioni, noi siamo tempo. Passato, presente e futuro, tutti fusi in un unico essere.

Spesso pensiamo al tempo come a un incomprensibile nodo da sciogliere, un groviglio da cui siamo ossessionati. Oggi più che mai, cronometriamo prestazioni e risultati, ma alla fine, cos’è che rimarrà? Se continuiamo a vivere così di corsa ci continueremo a perdere ciò che è davvero importante. La nostra mente è sempre proiettata avanti, verso il futuro, o indietro, verso il passato; ricchi di malinconia e rancore, pronti a colpevolizzarci per tutti gli errori (o quelli che pensiamo essere tali), ci riempiamo di senso di colpa per aver fatto questo o quello, o per non averlo fatto. E così è un attimo che ci dimentichiamo del presente. Di noi. Di loro. Del bello e del brutto, del sole che ci scalda, della pioggia che ci bagna. Ne parlava già Seneca: non c’è stato concesso poco tempo, dobbiamo solo imparare a nutrire le nostre vite al meglio, a riempire ogni istante che ci è stato donato, ad assaporare ogni attimo. Ed è proprio vero che a contare è il viaggio, più che la destinazione. Dobbiamo porci obiettivi, non potremmo crescere altrimenti, ma la crescita è determinata in prima misura dalle esperienze che maturiamo durante il percorso. Sono le cadute, gli errori e gli sbagli, tutte le lacrime versate e i sorrisi innaffiati, sono i rapporti che costruiamo, gli amori e i cuori infranti, le amicizie e le rotture. Tutto fa parte di quel grande processo che chiamano vita. Tutto fa parte di noi.

La nostra è una generazione fragile – parlo di Gen Z -, con poca fiducia nel futuro e una grande paura del passato. Non conosciamo direzioni sicure da intraprendere, perché di sicurezza ce n’è ben poca. Le aspettative sono tante: su di noi, sul nostro lavoro, sul nostro avvenire tanto personale quanto professionale. Abbiamo fretta di autorealizzarci. Viviamo nel confronto e nel paragone costante, e nella maggior parte dei casi finiamo per svalutarci. Forse dovremmo focalizzarci su quell’unica stanza che è la nostra vita; smetterla di guardare sempre verso l’altro da noi, verso chi è meglio, chi fa meglio, chi finisce prima, arriva prima, è più giovane, prestante, performante. Come quello che vediamo mescolarsi sul grande schermo, il tempo non è lineare e per certi versi, molto relativo. Ognuno deve coltivare il suo di tempo, per maturare e crescere. Ognuno di noi è diverso, unico nella sua diversità. E non potrebbe essere altrimenti. Unicità corrisponde a diversità.

Il protagonista del film diretto da Zemeckis rinuncia ai suoi sogni per raggiungere il prima possibile una garanzia materiale che gli conceda solidità. Ma la solidità non è sempre buona amica. Neanche a lui va troppo bene. E nella continua ricerca di quella tranquillità materiale si perde per strada, ritrovandosi solo più avanti ad essere più consapevole. Consapevole che non sono i beni materiali a salvarci, ma la fragilità scostante e vertiginosa dei sentimenti, in grado di smuoverci dentro e attivarci fuori, nel mondo. E torno qui ad elogiare le emozioni, bussole delle nostre vite, unici elementi permanenti capaci di sovrastare lo scorrere delle epoche. Perché il tempo scorre, ma le emozioni provate permangono. Come quell’uccellino colorato che ci accompagna dall’inizio del racconto fino alla sua fine, che vola tra le generazioni e ci raggiunge, osservandoci per qualche istante, come a dirci “il tempo non si ferma, ma tu esisti adesso. Vivi.”

Beatrice Tagliapietra