Ci siamo rincorsi per qualche settimana, complici vite troppo piene e impegni imprevisti, ma inizio ad apprezzare il valore dell’attesa: è un tempo durante il quale puoi meditare, prepararti e immaginare. E l’incontro con Samuele Barbetta, 28 anni, ballerino e coreografo, me lo immaginavo più o meno così, ma decisamente meno sorprendente. Abbiamo chiacchierato intimamente, riflettuto su diverse tematiche, quelle che dominano – e per certi versi schiacciano – un po’ tutti i ragazzi della nostra età, in bilico tra il dover fare e il voler fare, sulla danza, sul suo percorso e i suoi progetti. “Ho provato a ragionare a voce alta, cosa che faccio spesso, e ho improvvisato, altra cosa che faccio spesso”: un flusso di pensieri affiorato naturalmente, un confronto spontaneo da cui sono emerse domande e consapevolezze. Samuele è un artista versatile e complesso (nel senso più profondo e positivo del termine), con un’evidente predisposizione per l’interrogazione interiore, la ricerca e la sperimentazione, tutte caratteristiche che arricchiscono la sua danza. Ma ciò che davvero colpisce è la sua sincerità, l’onesta schiettezza con cui racconta e si racconta. Siamo partiti parlando di danza, una disciplina universale senza reale definizione.
BT: Ciao Samuele, vorrei partire da una riflessione: cos’è per te la danza?
SB: Mi ritrovo spesso a riflettere su questa tematica, cerco però di andare oltre alle tante frasi fatte come “la danza è un linguaggio universale”, “quando non so dire una cosa la ballo” che sentivo dire da tutti e che mi ritrovavo a dire io stesso. Mi sono chiesto come mai: non è che ci stiamo influenzando a vicenda? Forse definiamo spesso la danza come linguaggio universale perché non sappiamo realmente cosa sia. A me piace partire da qui, dal presupposto che non so cosa sia e che la mia ricerca sia focalizzata proprio sul cercare di comprenderlo ed è tentando di scoprirlo che mi ritrovo a sperimentare tantissimo. Mi piace fare tentativi per capire di cosa sto parlando. Per quanto riguarda me, la danza è sicuramente un secondo modo di esistere. Sono più gli anni in cui ho ballato nella vita, rispetto a quelli in cui non ho ballato: per questo considero la danza un mio modo di poter vivere la realtà. La danza si confonde con la realtà che vivo, ne ha preso parte in maniera quasi assoluta, e non si tratta più forse di decidere quando sto ballando o no, perché è come se stessi sempre ballando. E per ballare non intendo l’essere in scena o il praticare canonicamente la danza; per ballare intendo uno sguardo che pongo sul mondo, sulle cose, ed è uno sguardo che in qualche modo ha sempre a che fare con il mistero. Quindi per me la danza, se dovessi risponderti in modo semplice, è ciò che custodisce il mistero della vita. È il canale più diretto che ho io per rispondere o tentare di rispondere a tutte quelle domande sul senso della vita che a un certo punto arrivano. Quando ballo, quando mi trovo in quel momento di transizione in cui spazio e tempo si confondono, lì vivere diventa sensato. Io sono completamente immerso in questa cosa, continuamente, e non ha a che fare solo con il corpo. Per me è un po’ tutto danza. Mi avvolge come fosse una seconda pelle, è un modo di camminare per il mondo, di calpestare la realtà che vivo.
BT: Mi racconti del tuo percorso personale, dei cambiamenti che hai affrontato negli anni?
SB: Io ho iniziato – e sono ancora inserito – nel panorama della street dance, della cultura hip hop. I miei studi vengono da lì, da un ambiente che, fino a qualche tempo fa, era estremamente antiaccademico, c’erano solo corsi sporadici o collettivi di danzatori e B-boy. È una cultura che solo ora sta iniziando a istituirsi, a entrare nei luoghi, stanno nascendo anche tante accademie dedicate. Nella scena continuo a praticare degli stili precisi che hanno a che fare con le danze funk, il popping, il locking, ma a un certo punto ho un po’ girato la testa, soprattuto a livello nozionistico e informativo. Questo perché ho iniziato a conoscere persone che praticavano danze diverse e così ho esplorato soprattutto il mondo contemporaneo.
BT: Puoi parlarci delle tue ispirazioni?
SB: Durante questo momento di transizione è nato un amore grandissimo per i lavori di Pina Bausch, che è stata il primo incontro fatto fuori dalla sfera della street dance. Da lì è iniziata una vera maturazione legata alla scoperta di coreografe e coreografi del ‘900 o prima, e dei loro lavori. Restavo sorpreso osservando che certe forme, certe estetiche, questi personaggi le avessero fatte davvero. Prima di conoscere Pina Bausch mai mi sarei immaginato che in scena ci potesse essere una persona che semplicemente agitava una bottiglia d’acqua vuota, e magari nella mia testa prima c’era anche passato qualcosa del genere. Ho scoperto l’innovazione tornando indietro. Ho scoperto anche tanti coreografi che avevano fatto lavori sul nudo, sul contatto violento. Mi piace pensare che la maturazione sia e sia stata un continuo rendermi conto di quanto io possa fare in scena.
BT: Da come ne parli, Pina Bausch sembra aver avuto un ruolo decisivo.
SB: È una delle coreografe che conosco e che ho studiato di più. Il suo lavoro viene chiamato teatro-danza: due mondi considerati separati, ma delle volte in scena non riesco a capire qual è l’uno e qual è l’altro. È grazie a Pina Bausch che ho maturato l’idea che la danza contenga quel mistero di cui parlavo all’inizio. Il fatto che io non riesca a tradurre in modo diretto e semplice il linguaggio di Pina Bausch e della sua danza, in quello verbale, quello con cui elaboro i miei pensieri e comunico: questa è la prova evidente che il potere della danza è proprio contenere mistero, l’indecifrabile, l’intraducibile. Per questo forse lo si definisce un linguaggio universale. Per me è un linguaggio universalmente sconosciuto. È logico che lo possiamo usare come linguaggio, ma non possiamo porlo semplicemente sul piano della comunicazione verbale che usiamo per capirci. All’inizio del mio percorso, consideravo la danza come espressione del corpo, della tecnica, della condivisione, perché l’hip hop abbraccia molto la libertà di espressione, il condividere con gli altri anche certi valori di appartenenza, lo stare in gruppo. Ma sicuramente nella street dance manca un pensiero sulla danza, sull’arte, e sentivo l’esigenza di approfondirlo. Ora questa danza, questa cultura che amo moltissimo, è diventata uno strumento che uso per indagare altro. Nella mia pratica è viva la cultura della street dance, ma i pensieri sono quelli che vengono dalla danza contemporanea, dai grandi coreografi del ‘900, che a conti fatti erano degli intellettuali. Avvertivo l’esigenza di approfondire questo interesse culturale, di abbracciare l’arte che ho sempre fatto, anche dal punto di vista intellettuale. Quello che vorrei oggi, è che ci fosse uno scambio di lavorazioni fatte di pensiero, non solo di corpo.
BT: Parlavi di persone e ispirazioni: puoi raccontarci di un incontro particolarmente significativo per te?
SB: Tra le cose che mi hanno rivoluzionato di più nell’ultimo anno vi è stato l’incontro con Damiano Fina, un ballerino e insegnante di danza Butoh. Ho partecipato alle sue lezioni perché ne ero davvero incuriosito. Il suo gruppo di lavoro era composto da signore che non avevano mai studiato danza in modo convenzionale come avevo fatto io. Damiano a lezione non spiega in cosa consiste esattamente questa danza; tutto fluisce, ti ritrovi a muoverti nello spazio attraverso una camminata, la zero walk, e lui fornisce una serie di suggestioni con le quali riesce a farti concentrare sul corpo e sulla spazialità che si crea intorno a te, molto più ampia del posto in cui sei. Io rimasi affascinato osservando come una signora semplicemente alzava un braccio: in quel momento non avrei saputo come fare quella cosa lì, così semplice. E questa libertà che lui ti dà è straordinaria. Lì ho iniziato a mettere in discussione tutto ciò che avevo imparato fino a quel momento e a concepire in modo diverso la danza, tutto quello che faccio, come insegno. Perché mi sono accorto quanto la danza sia la possibilità per ogni persona di fare esperienza con la propria libertà. Vedere persone che non hanno mai studiato danza, che non hanno fatto esperienza sul lavoro fisico, muoversi, è interessante e affasciante, e, eliminando per un attimo il piano performativo, è molto curativo, è un modo per esprimere bellezza da parte di tutti. Questo incontro mi ha messo in difficoltà e il mio modo di fare lezione è cambiato nell’ultimo anno. Sto ancora cercando di capire come trasmettere e scambiare al meglio queste informazioni. In questo momento sento l’esigenza di far ballare e basta, guidando le persone ma senza imposizione, senza dire loro come. Mi trovo in una fase di transizione, dove voglio eliminare il vecchio e fare entrare il nuovo. Certo, non è semplice, anche perché tecnica, preparazione e pratica restano importanti canali per la bellezza, indispensabili, ma voglio dare maggior spazio alla libertà di ognuno, perché in ogni movimento c’è espressione, espressione vera e pura. Si tratta di corpo, non ci sono filtri e non si può mentire. Il movimento appartiene a tutti quanti.
BT: De Anima è la tua compagnia? Qual è la sua storia?
SB: La nostra è una compagnia nata come crew. Veniamo tutti dalla street dance, dall’hip hop, e le persone che ci sono adesso, ci sono più o meno da sempre. I cambiamenti di cui ti parlavo passano sempre da loro e con loro, abbiamo un continuo scambio anche intellettuale, ci interroghiamo su cos’è la danza, pensiamo a cosa mettere in scena e al perché farlo. Loro sono anche coreografe e coreografi bravissimi: io ho la direzione creativa del progetto ma le cose che succedono vanno da sole perché hanno tutti le proprie e diverse dimensioni da cui attingono, per cui il lavoro è sempre super collettivo. L’anno scorso abbiamo attraversato un momento di crisi: volendo sperimentare non è semplice trovare un posto nel mondo lavorativo, abbiamo sempre lavorato per trovare una nostra dimensione, con tante difficoltà interne ed esterne. A ottobre sono stato a Vienna per due giorni e rimasi folgorato dalla storia della secessione viennese, così decisi di ispirarmi a questi artisti per il lavoro con la compagnia. Dovevamo fare ciò che volevamo, portando dentro al gruppo tutti gli artisti e amici che avevamo incontrato negli anni, anche quelli che non avevano a che fare con la danza in senso stretto. Dentro al collettivo De Anima adesso c’è gente che si occupa di poesia, di grafica, di fotografia, di video e di teatro. È bellissimo così e tutto sta cambiando. Prima i nostri incontri avvenivano esclusivamente in sala, davanti allo specchio, a sperimentare e preparare le nostre cose. Anche adesso ci troviamo in sala, la parte danza esiste sempre, ma una volta a settimana ci troviamo nel nostro “covo”, lo chiamiamo così, con tutti quanti a discutere su varie tematiche. Il lavoro del collettivo è nato in modo organico e per quest’anno abbiamo deciso di cambiare tematica ogni due mesi, lavorando e sperimentando periodicamente su quello specifico tema: quindi workshop di danza, teatro e tante altre pratiche e arti. Organizziamo anche serate culturali con performance e installazioni, con momenti di dialogo, e spesso anche con lo Spritz in mano… perché siamo pur sempre veneti.
BT: Quindi il dialogo resta al centro.
SB: I momenti di confronto sono sempre democratici, non ci sono io che parlo o do la parola, ma uno scambio continuo. È così anche per i miei workshop: a me piace sempre creare questi momenti in cui ci troviamo allo stesso livello per parlare di ciò che facciamo. De Anima è proprio un collettivo artistico che si occupa di sperimentare e offrire punti di vista diversi. È bello perché c’è sempre un sacco di fermento, di soddisfazioni, e stiamo conoscendo tante persone nuove. Non è sempre semplice addentrarsi nella sperimentazione senza limiti perché bisogna lasciare fuori la voglia di farsi notare, di performare per far vedere che sei il più “figo”, qualcosa di molto invasivo nel nostro campo. Bisogna lasciare fuori questa inclinazione, per abbracciare un senso di comunità, di possibilità, di errore e di sbaglio che porta a maturare delle elaborazioni più complesse e interessanti, anche condivisibili. I workshop sono aperti a tutti, accettiamo tutti e si crea una certa magia, un’interconnessione tra persone diverse. È proprio bello vedere come personalità differenti inseriscono dentro al contenitore danza ispirazioni e desideri che normalmente sono visti fuori da quella dimensione. Questo mi dà la conferma di quanto sia importante considerare la danza come un contenitore molto più ampio, di quante sfumature possa accogliere e di quanto voglia farlo anche io.