Se anche voi intorno al 2013 passavate le vostre giornate su Twitter e/o su Tumblr, ricorderete sicuramente che erano il regno di un particolare tipo di persone: le fangirl (o i fanboy, anche se in parte sicuramente minore). Tali piattaforme erano il territorio privilegiato di fandom dai più svariati nomi, come Directioners, Beliebers, Swifties, Rihanna’s Navy, Little Monsters (per Lady Gaga), Bey Hive (per Beyoncé), e chi più ne ha più ne metta.
Questi siti venivano utilizzati da tali gruppi per creare community intente a sfidarsi a vicenda con la finalità di portare il nuovo singolo del* propri* artista preferito al top delle classifiche, di far raggiungere il maggior numero di views possibili al suo nuovo videoclip, e di far andare in trend hashtag a loro riferiti.
Queste battaglie avvenivano continuamente e avevano l’obiettivo di dimostrare quale fosse il fandom migliore e quale artista del momento avesse il rapporto più solido con i propri seguaci.
Persino tra i membri del medesimo fandom si creavano sfide: si faceva a gara a quanto fosse sconosciuta la propria canzone preferita, a chi avesse avuto l’occasione di incontrare i propri beniamini più volte, o a chi sapesse più fun facts su di loro. Immancabile era, inoltre, la tendenza consistente nel creare veri e propri archivi di foto e gif dei momenti più “memabili” e importanti, alimentando così lo scontro per definire chi ne sapesse di più o chi fosse andato più a fondo nella lore del proprio idolo. Erano anni incredibili per chi faceva parte di queste community su Twitter e Tumblr: non ci si annoiava un momento.
Insomma, su questi siti si andavano a creare enormi gruppi di persone con gli stessi interessi, che passavano il tempo ad inventare i più disparati modi per farsi notare dal* propri* beniamin*. Sicuramente, se ancora bazzicate su internet, ritroverete questi comportamenti e queste caratteristiche tra le fan di Taylor Swift, Swifties appunto, il vero e proprio esercito della cantante ad oggi più famosa al mondo, che ha iniziato a formarsi proprio intorno agli anni a cui faccio riferimento. Nello specifico, riscontrerete che questo fandom ha un forte rapporto con la cantante che va molto al di là della sua musica. Del resto, basta veramente poco per cadere nel rabbit hole che si cela dietro i testi di Taylor Swift e per iniziare a rimanere intrappolati nella lore del suo repertorio e della sua storia.
Il comune denominatore di questa moltitudine di persone, a prescindere dal fandom di appartenenza, era indubbiamente l’amore l’incondizionato per un* determinat* artista e per la sua musica. Prima di tutto, era assolutamente essenziale conoscere in maniera più che approfondita tutte le canzoni e i testi, non solo quelli noti ma anche addirittura tutte quelle demo che erano state diffuse (senza il consenso da parte degli artisti, purtroppo) e che non avevano mai visto la luce del sole nelle pubblicazioni ufficiali.
Ma oggi, che fine hanno fatto i fandom? Sembra quasi che, a parte quelli formatisi negli anni di cui sopra, gli artisti emergenti non riescano a crearsi fanbase altrettanto numerose o devote. Sono diversi i fattori all’origine di questa sorta di crisi dei fandom, anche se principalmente ne individuo due, oltretutto tra loro collegati: la maggiore rilevanza che stanno guadagnando le playlist e il crescente ruolo di TikTok. Per quanto riguarda il primo fattore, sembra che gli artisti puntino sempre di più ad essere inseriti, con i loro nuovi singoli, nelle playlist di maggior importanza. Ciò li porta ad una produzione smisurata di canzoni singole, a sé stanti, che faticano a creare un lavoro coeso pubblicabile come album o a permettere un’evoluzione che possa rimandare ad un progetto a lungo termine. Inoltre, dato che uno stream è considerato tale all’ascolto dei primi 30 secondi del brano, molti artisti puntano tutto sul rendere questi 30 secondi memorabili così da convincere gli ascoltatori a non fare skip.
Ciò si riflette anche nel tentativo di pubblicare brani che possano andare virali su TikTok.
Per quanto tale piattaforma permetta di scoprire nuova musica, inducendo chi la utilizza a cercare i brani integrali sui servizi di streaming, sembra tuttavia che molti utenti rimangano “in fissa” con quella porzione di brano che sentono ogni giorno, milioni di volte, nei video sull’app. Spesso, inoltre, i brani diventati virali sulla piattaforma vengono inseriti in playlist dedicate, scelte da questi ascoltatori occasionali per continuare a sentire le canzoni di cui hanno già fatto il pieno sull’altra piattaforma.
È evidente come questo stia cambiando il modo di scrivere canzoni da parte degli artisti stessi, che tentano appunto di attirare l’attenzione in quei primi 30 secondi, o di inserire parti adatte alla creazione di una coreografia, magari sviluppando la stessa già all’interno del video musicale ufficiale (si pensi, ad esempio, al caso di Tuta Gold di Mahmood, giusto per menzionarne uno). Ovviamente la speranza è che il pubblico, incuriosito dalla parte diventata virale, vada non solo ad ascoltare il singolo brano sui servizi di streaming, ma anche a scoprire il resto del loro repertorio, possibilmente fidelizzandosi e potenzialmente diventando una community di fan veri e propri.
Purtroppo, tuttavia, sembra che TikTok e l’importanza che viene attribuita alle playlist stiano creando un’infinità di quelli che vengono definiti “one hit wonders”, cioè artisti diventati famosi per quel singolo brano e poi spariti più o meno nel nulla. Inoltre, si generano sempre più frequentemente fenomeni come quello di Steve Lacy. Tale artista, prima di diventare virale su TikTok con la sua canzone Bad Habit, aveva già alcune pubblicazioni all’attivo, ma era riuscito ad ottenere la fama tra il grande pubblico soltanto grazie a questo brano del 2022. Sono purtroppo abbastanza celebri su internet i video in cui Lacy decide di abbandonare il palco (senza più tornare) durante diversi concerti, contrariato dal fatto che il pubblico conoscesse solamente i versi di Bad Habit diventati virali e non il resto del brano, né tantomeno il resto del suo repertorio. A prescindere dall’opinione che si può avere riguardo al gesto del cantante, è chiaro che non deve essere piacevole realizzare che le persone presenti al proprio concerto siano venute esclusivamente per cantare quei 15 secondi, facendo un video con il telefono e nulla di più. Del resto, non credo che ci sia miglior sensazione per un*artista di sentire il pubblico cantare a squarciagola ogni singola parola dei propri brani; mentre, al contrario, trovarsi di fronte a questa situazione non può che risultare particolarmente avvilente.
Avere una fanbase di fedeli ascoltatori regala un sentimento di realizzazione all’artista, che ha la consapevolezza di essere supportato da qualcuno che l* amerà e gli/le vorrà bene a prescindere da (quasi) tutto. In breve: gli stadi non si riempiono solo grazie agli ascoltatori occasionali. L’essere fan si converte ovviamente in maggiori stream, maggiori vendite di merchandise e di biglietti di concerti e, di conseguenza, in maggiori introiti per gli/le artist* e la macchina industriale che l* circonda. Sembra, infatti, che le etichette discografiche abbiano pienamente compreso l’importanza dal punto di vista economico dei superfan, disposti a tutto pur di poter supportare il proprio idolo in qualche modo. Tuttavia, trovo che questa strategia di lucro attualmente risulti in qualche modo “in ritardo”, in quanto – sebbene di certo non manchino persone disposte a spendere centinaia, se non migliaia, di euro per un pacchetto vip di un concerto – sembrano sempre meno numerosi i gruppi di fan che potrebbero davvero fare da target per queste campagne di marketing.
I fandom citati all’inizio di questo articolo, quelli che si sono andati a creare all’inizio degli anni 2010, erano formati da persone che davvero puntavano a comparare quanti più biglietti per concerti possibili, ad avere tutte le versioni di merchandise esistente, a partecipare a concorsi radio e a comprare quanti CD fosse necessario per entrare ad un meet&greet, firma-copie o ad un’estrazione casuale per vincere dell’ulteriore merch o, addirittura, un incontro speciale con il proprio idolo. Questa voglia di spesa, che purtroppo non sempre si convertiva in effettiva possibilità, era dovuta all’approfondita conoscenza dell’artista e della sua discografia, ad un amore smisurato per tutto ciò che riguardava il mondo che circondava i propri* beniamin*, ad un voler esserne parte anche nella vita reale e ad un voler dimostrare di essere componente integrante di quel gruppo di appassionati anche al di fuori di internet.
Tuttavia, oggi gli appassionati di musica sembrano composti principalmente da ascoltatori occasionali, che difficilmente potrebbero avere davvero voglia di spendere ingenti quantità di denaro per dimostrare di essere parte di un gruppo a cui in realtà non sono così convinti di appartenere. Insomma, se si conoscono solo 15 secondi di una singola canzone, come si potrebbe arrivare ad acquistare pacchetti vip da centinaia di euro, magliette costosissime o svariate versioni di un disco di cui non si conosce nemmeno una canzone per intero?
Ribaltando la questione, forse in passato i fandom si creavano non solo perché c’era un modo diverso di ascoltare la musica, ma anche perché non sembrava esserci nessuno a spingerci a svuotare i portafogli per dimostrare di essere parte di quella community: c’erano solo la voglia di appartenervi e quella di far sentire il proprio artista preferito supportato e amato.